Durante la presentazione del mio ultimo libro*, fatta ad Avellino sabato scorso, abbiamo assaggiato alcune bottiglie storiche (ahimé, le ultime della mia cantina) di Taurasi Mastroberardino dell’annata 1968 (Castelfranci, Montemarano e Piano d’Angelo) e la riserva del 1961.
Il Taurasi di Mastroberardino è uno dei 7 vini leggenda descritti nel libro, ad accompagnamento di una intervista, ovviamente immaginaria, ad altrettanti personaggi della storia e della letteratura, Il Taurasi spunta fuori alla fine dell’intervista ad Alexandre Dumas Padre, autore, tra l’altro, di un monumentale Dizionario di cucina, nel quale è compreso un denso capitolo dedicato al vino. Dumas , naturalmente, è molto scettico sulla qualità dei vini italiani , che “hanno più fama che valore”, così come è fortemente critico nei confronti della cucina italiana in generale, e di quella napoletana in particolare. Al termine di una cena alquanto laboriosa per lo stomaco del povero intervistatore, il cui menu comprendeva la personale rielaborazione di Dumas dei maccheroni alla Rossini, ecco arrivare in tavola un Aglianico invecchiato di Taurasi, regalato allo scrittore da un suo ammiratore di Avellino. Chiusa questa parentesi (l’intervista è finta, ma ricette e opinioni di Dumas sono autentiche), sono sicuro che, davanti alle bottiglie dell’altra sera anche Dumas si sarebbe ricreduto e avrebbe loro assegnato un posto di prestigio nella categoria dei “grandi vini”, quella più alta della gerarchia dumasiana (nella quale non è compreso nessun vino italiano), a cui seguono poi i vini pregiati,i grandi ordinari e gli ordinari,
Incredibile, dopo tanti anni, l’integrità dei vini assaggiati. Rovinate , rovinatissime, le etichette (ma leggibili), giovanissimi i vini: difficile dar loro, assaggiati alla cieca, più di 15-20 anni. Le vetustissime bottiglie sono state magistralmente stappate e caraffate dalla mano fermissima di Massimo Di Rienzo, enologo della Mastroberardino, presente alla serata con il titolare, Piero Mastroberardino, che ha collaborato anche lui alla complessa operazione, il vino è stato distribuito nei bicchieri (più numerosi del previsto) da Paolo De Cristofaro. Abilissimo, fino alla magia, pure lui: non capirò mai come sia riuscito a farlo bastare per tutti e persino a rimediare qualche insperato“rabbocco” .
Per la verità mi è già capitato più volte di assaggiare vini di quella età: talvolta, decisamente morti, o con solo un esile filo di vita, avvertibile dall’acidità residua, talatra ancora vivi, ma decisamente in stato comatoso. Il termine più appropriato per descriverli è “Commoventi”, perché, pur nel fatale decadimento, vi si intravedono comunque le tracce dell’antica nobiltà. Macché. Le bottiglie dei nostri Taurasi non solo erano splendidamente integre, ma anche eccellenti. Impossibile non pensare, stupendosene, che un simile risultato è stato ottenuto con tecnologie molto più primitive, tra difficoltà oggi inimmaginabili (prime tra tutte quelle legate al trasporto delle uve in cantina): Castelfranci, uno dei tre meravigliosi comuni da cui provengono le selezioni assaggiate, dista una trentina di chilometri da Atripalda. Ci vogliono tre quarti d’ora, e anche più, oggi, per arrivarci in auto. Immaginate quanto tempo ci volesse mezzo secolo fa sulle strade di una volta? Certo uno dei miracoli della natura, che talvolta accadono nel mondo vitivinicolo , come la vendemmia del 1955 per il Brunello di Montalcino di Biondi Santi, il 1947 dello Château Cheval Blanc o il 1985 del Sassicaia, per citare altri tre dei vini leggenda descritti nel libro. Il 1968, in Irpinia, fu davvero l’annata del secolo, a nostra conoscenza, e anche generosa nelle quantità. Un’annata più calda della media di quegli anni, metereologicamente perfetta. Ma non basta. Pensiamo allora alla grande sapienza contadina di quei vignaioli e all’esperienza di vinificatori , che non avevano lauree o diplomi di enologo, e che potevano contare solo su di sé , senza trovare riparo in sofisticate tecniche “anabolizzanti”. Chapeau davvero. Tre interpretazioni magnifiche del territorio del Taurasi, un vino che non ha ancora la continuità e la notorietà di altri grandi rossi italiani, ma capace di regalare , nelle vendemmie favorevoli, gioielli come questi.
Simili, ma quanto anche diversi. Il tempo ha addirittura esasperato le differenze tra i tre cru, esaltandole: più finezza ed eleganza nel Castelfranci, dei tre quello che mi ha personalmente maggiormente stregato, più struttura e volume nel Montemarano, di ammirevole solidità e complessità, più delicatezza nel Piano d’Angelo, quasi etereo, forse appena un filo (molto sottile) al di sotto degli altri due. Che dire del Taurasi riserva 1961? Mi verrebbe da dire: “Eterno”. A partire dal colore, insospettabile in un vino che ha quasi raggiunto gli 11 lustri: e poi il naso, con la marasca ancora ben riconoscibile, a marcare il vino , di grande titpicità territoriale, insieme con sfumature pià scure di terra, radici, note iodate e minerali, Grande vino.
Buoni, buonissimi anche i vini (tutt’altro che delle comparse) scelti per il seguito della degustazione, per accompagnare il nuovo nato, la Riserva Radici “Antonio”, dedicata al padre di Piero, scomparso lo scorso anno, vendemmia 2008: uno Châteauneuf-du Pape dello Château Beaucastel 2009, giovanissimo, ma dal bellissimo frutto, un Numanthia Toro 2008 di grande opulenza, forse un po’ troppo orientato verso il gusto internazionale,ma di grande materia, che si farà sentire nel corso degli anni, e il Muntada dello stesso anno del Domaine Gauby, un Côtes du Roussillon villages di Calce, da vigne molto vecchie , in parte ultracentenarie, di Grenache e Carignan, con aggiunte di Syrah e Mourvèdre, un tantino più rustico degli altri, offuscato da tanta ricchezza. La Riserva Antonio? Un eccellente Taurasi di stile moderno, ma non modernista, nella tradizione di Radici, ancora molto giovane, ma già in grado di farsi rispettare. Colore rubino profondo con sfumature granata, naso balsamico di grande complessità, con note caratteristiche di ciliegia, ginepro e macchia mediterranea, polputo e avvolgente sul palato, lungamente persistente.
A rendere più festosa la serata, i soliti amici del LASP , il vivace club di assaggiatori raccoltosi attorno a Francesco De Pascale e alla sue bella Enoteca, e, naturalmente il nostro anfitrione, lo stesso Francesco, pronto, oltre che a riempire i nostri piatti di sfiziosità irpine, con i suoi commenti, sempre molto pertinenti e puntuti. Bella anche la discussione che ne è seguita, ovviamente non solo sul libro, ma principalmente sui suoi protagonisti vinosi.
* “Interviste (ancor più impossibili) davanti a un bicchiere di vino”, Adda editore, Bari. La serata si é svolta sabato 12.12.2015 presso l'Enoteca-Pasticceria De Pascale di Avellino..