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Quando un vino diventa “antico”? Il vino, lo sappiamo, se “nato bene” e conservato in condizioni adatte può resistere molto più di quelle che potremmo definire le “attese standard”. Questo riguarda non solo i vini tratti dai vitigni e provenienti dalle zone più accreditate per dare “vini da lungo invecchiamento”, ma talvolta anche quelli che generalmente vengono considerati di vita più breve. Personalmente ho ottimo ricordo di un Feldmarshall di Tiefenbrunner del 1990, bevuto nel 2007: diciassette anni non sono pochi non solo per un bianco dell’Alto Adige, ma anche per molti rossi importanti. Certo, è vero anche l’inverso. Talvolta le attese standard sono violate in negativo. Basta un tappo di qualità scadente o una modificazione ambientale inattesa (un guasto al condizionatore di cantina in una stagione più calda della media, livelli di umidità più bassi di quelli ottimali…) per rovinare bottiglie eccellenti. Dopo dieci anni dalla vendemmia, comunque qualsiasi vino rischia. Il suo maggiore punto di vulnerabilità è sempre il tappo, ma se il tappo è di qualità e regge, tutto è possibile. Devo ammettere che il progresso tecnologico non sempre aiuta da questo punto di vista. Certo è che più di una volta ho avuto modo di constatare che vini vecchi di alcune decine di anni, quando l’enologia era molto più un’arte contadina che un sapere tecnologico, hanno una resistenza stupefacente. Tra questi sono sicuramente quelli di Lungarotti, storica azienda di Torgiano in Umbria, famosa anche per l’abitudine insolita di mettere in vendita i suoi vini di maggior prestigio diversi anni dopo la vendemmia, molti di più di quelli normalmente adottati da altri produttori. E’ questo certamente anche il caso del San Giorgio della vendemmia 1990, imbottigliata dieci anni dopo, nel 2000, di cui parleremo questa volta: un vino di 21 anni, e quindi “antico”.
Lungarotti è nota soprattutto per il suo Rubesco riserva. Quello della vigna Monticchio, etichettata per la prima volta con questo nome, se ricordo bene, nel 1974, ha sempre mostrato una resistenza straordinaria, In questi ultimi due-tre anni ho assaggiato diverse vecchie bottiglie di Monticchio: delle due del 1974 una era decisamente ossidata (il tappo aveva ahimé ceduto e il vino era irrimediabilmente ossidato), ma l’altra era integra e conservava un fascino commovente; migliore ancora la riserva del 1971, imbottigliata nella tradizionale borgognona, ma non ancora con l’indicazione della vigna; incredibile, per i suoi quasi 40 anni di età- udite udite- un Rubesco “normale”, in bottiglia classica bordolese leggera (quelle che se ti cadono su un piede non ti rompono il piede, ma si rompono loro) del 1969. Ma lo scorso anno avevo già bevuto un San Giorgio del 1978 (forse la prima vendemmia di questo vino?). Anche in questo caso il vino non era più al top, ma era ancora sorprendentemente in sé.
Mi trovavo, domenica scorsa, a parlottare amabilmente di vini (e di che altro?) con il mio amico Francesco, giovane e bravo enotecaro di Avellino, grande conoscitore dei vini iripini, in attesa di alcuni amici con i quali avevamo in animo di assaggiare un Nuits-Saint-Georges del 2005 premier cru, quando Francesco ebbe l’idea di “aprire un vino” per passare il tempo. Tirò dunque fuori questo San Giorgio, blend di Cabernet Sauvignon (50%) e Sangiovese (40%), con un po’ di Canaiolo, di Torgiano, appunto della vendemmia 1990. Il vino è ricavato da una vigna di Cabernet con un suolo principalmente calcareo e una di Sangiovese e Canaiolo con un suolo argilloso-sabbioso, con una densità di media di 4-5000 ceppi per ettaro. Oggi il San Giorgio (anche quello del 1990?) fermenta in acciaio, dove macera sulle bucce per 2-3 settimane, Dopo 12 mesi di barrique, attende almeno tre anni in bottiglia prima di essere ritenuto pronto e immesso sul mercato. Nella bella etichetta, San Giorgio e il drago, tratto dal famoso dipinto di Raffaello conservato al Louvre, in omaggio al Santo, festeggiato a Torgiano il 23 aprile, accendendo dei falò propiziatori nelle vigne con gli scarti della potatura.
La “nostra” bottiglia era in condizioni eccellenti. Nessuna macchia di vino raggrumato all’esterno,sulla capsula o sull’etichetta dovuta alla fuoriuscita di liquido, tappo apparentemente integro, ancora sufficientemente elastico, mostrava un livello del vino ottimale, e il colore, per quanto giudicabile dall’esterno, senza flessioni. Aperta la bottiglia, superata una iniziale difficoltà dovuta alla temperatura esterna troppo bassa (13°?), il vino, versato in bicchieri ampi, da Barolo, e un po’ riscaldato dalle mani (fredde pure loro, peccato), ha mostrato il suo colore porpora non troppo carico, ma non “vecchio”, di buona brillantezza, offrendo profumi freschi di ciliegia rossa, con sfumature più leggere di fiori (viola) e liquirizia; al palato , oltre ad una notevole freschezza, propone le stesse evocazioni di frutti rossi, con note speziate, di cannella, chiodo di garofano, cacao e goudron, con tannini morbidi . Bel vino , per certi versi strano : dà l’impressione di un vino vecchio, ma sembra nel contempo ancora giovane. Non mostra alcuna decrepitezza e dà anzi l’impressione di poter resistere ancora parecchi anni, almeno cinque o sei. Bella riuscita di un vino, nel quale si avverte prima il sangiovese, pure presente in percentuale più ridotta, e solo dopo il Cabernet, in un blend di grande equilibrio Punitiva la valutazione di Wine Spectator, che, nel 2000, subito dopo l’uscita, gli attribuì 84 punti su 100 e valuta le diverse annate del San Giorgio tra 82 e 86 punti. Meno severo l’87+ di Stephen Tanzer. WOW stima quella bottiglia 89 su 100 (Pubblicato il 20.2.2011).
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Il termine “degustare” indica l’atto del bere (nel nostro caso un determinato vino), utilizzando tutte le proprie risorse sensoriali (visive, olfattive, gustative) e cognitive ( attenzione, capacità di analizzare le diverse proprietà o caratteristiche di un vino, recuperare dalla memoria le esperienze passate, simili e diverse, descrivere verbalmente con termini appropriati…), allo scopo di conoscere meglio un vino e trarne godimento, arricchendo inoltre il bagaglio delle proprie esperienze e conoscenze.. Degustare un vino è quindi un’esperienza sensoriale, ma anche “intellettuale”, che permette il riconoscimento affettivamente carico , capace quindi di suscitare emozioni, che è stato eventualmente raggiunto un elevato livello di perfezione, tale cioé da esprimere in modo distintivo l’identità e le potenzialità di un grande territorio, destinato a lasciare una traccia duratura nella nostra memoria.
Meglio alla cieca? Quella della degustazione cieca è una pratica che, da un ambito molto ristretto, quale dovrebbe essere, primo fra tutti quello della valutazione dei vini per un concorso,allo scopo di evitare che i giudizi dei degustatori siano distorti dalla conoscenza o la simpatia e la notorietà di un determinato produttore, oppure delle esercitazioni didattiche, finalizzate a meglio apprendere, ad es., i caratteri varietali di una certa uva, o gli effetti di una certa pratica enologica , è diventata sempre più popolare tra gli appassionati, che ne hanno fatto una specie di gioco di società, effettuando delle degustazioni cieche “a prescindere”, solo per scoprire chi è più bravo nel riconoscere i vini senza guardare l’etichetta..
Si tratta di qualcosa che non ha nulla a che vedere con un vera degustazione. Innanzitutto é per lo meno dubbio che l’assaggio di un dato vino possa suscitare la stessa emozione e quindi lo stesso piacere, se assaggiato in una condizione totalmente asettica , magari senza neppure poterne ammirare il colore , come avviene in certe degustazioni fatte al buio, oppure potendo invece utilizzare tutto il patrimonio di conoscenza che abbiamo di quel vino e del territorio da cui proviene, che ci permetterebbero di valutarne la tipicità o la coerenza con altre annate dello stesso vino, oppure con lo stile caratteristico del suo produttore, di cui abbiamo visitato le vigne e appreso dalla sua viva voce le sue idee e gli sforzi da lui compiuti per realizzare il suo progetto enologico. Se è vero che “ l’amore è cieco”, ci chiediamo tuttavia se sarebbe vero amore quello provato per una persona che non si potesse vedere e di cui non si sapesse nulla della sua personalità, delle sue preferenze, dei suoi interessi, delle sue aspirazioni. Del resto è una pura illusione che la valutazione di un vino sia davvero totalmente cieca e che le conoscenze ed anche le preconoscenze del degustatore siano messe fuori gioco semplicemente coprendo le etichette dei vini che sta assaggiando.
La nostra opinione è che, se si vuole, si può anche trasformare la degustazione di un vino in un gioco di società, nel quale ci si sfidi a identificarlo sulla base di un semplice assaggio, ma non crediamo affatto che da un assaggio fatto in simili condizioni, magari senza conoscere neppure la tipologia di vino , oppure mescolando tipologie diverse, al di fuori di qualunque sequenza razionale, come talvolta abbiamo visto fare, sarebbe possibile andare al di là del semplice riconoscimento di una varietà di uva,peraltro nel caso di vini molto “varietali”, che non abbiano una particolare personalità o non esprimano in modo particolare alcun territorio . Ricordo il racconto, già citato di Roald Dahl “Palato”. Un borghese alla ricerca di distinzione sociale che cerca di diventare esperto di vini di pregio e che cerca di introdursi nel mondo della conoscenza dei grandi vini sfidando periodicamente un grande esperto a riconoscere “alla cieca” un vino: perde sistematicamente la scommessa, ma perché non ha ancora scoperto che l’esperto si è premurato di sbirciare prima della sua esibizione, l’etichetta del vino da assaggiare , che il padrone di casa ha messo ad ossigenarsi in una caraffa nella sua biblioteca, dove la temperatura è più adatta.
Si può riconoscere abbastanza facilmente una certa varietà di uve , specie se molto aromatiche : si pensi ad un Gewurtztramner , un Sauvignon o un Moscato. Bevuti una volta, anche il poco esperto è in grado di riconoscerli. Ma è altrettanto facile distinguere un Gewurztraminer dell’Alto Adige da uno austriaco o alsaziano? O il Sauvignon di un Sancerre da uno delle Grave del Friuli? E un Grenache noir spagnolo da uno della Languedoc? Magari anche mescolati con un Mourvèdre o un Syrah? Si può (forse), ma sarebbe già meno facile. Distinguere tra un Haut Brion e un Pape Clement o tra due grandi Pauillac sarebbe un conto: ma due Bordeaux “ di marca”?
E ammesso che si possa: ma poi, soprattutto, a che servirebbe?
Quella che vi invitiamo a fare è invece una degustazione semi-cieca. Tra vini della stessa tipologia, dello stesso territorio, ma di diversi cru, ciascuno servito alla temperatura a lui appropriata e dopo una ossigenazione adatta a ricavare il meglio da ciascuno di essi, e nella giusta sequenza, dal vino più semplice a quello più complesso. Forse vi si riconoscerebbero abilità più fini e sarebbe probabilmente un’esperienza più interessante e più utile (Pubblicato il 13.1.2011).
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Perché caraffare un vino? Se si ha una bella caraffa, mettervi il vino consente innanzitutto di ammirarne la bellezza ed inoltre di apprezzare maggiormente il colore di un vino, che resta di solito celato dal vetro affumicato della bottiglia., Inoltre, se il vino ha molti sedimenti, versarlo con cautela , prevenendo con molta attenzione la eventuale caduta di depositi monitorando la limpidezza del vino che si sta versando controluce (magari con una candela, che fa anche un po’ di scena) consente di servire un vino abbastanza limpido, senza che restino in bocca dei residui poco piacevoli. Infine se il vino è molto giovane e ancora un po’ ritroso per la mancanza di ossigeno, mostra un po’ di riduzione, non gradevole al naso, oppure,è più vecchio, ma non decrepito (non oltre 10-12 anni), evidenzia dei sentori di chiuso, quasi da vecchia cassapanca, un breve contatto con l’aria consente di disperderli rapidamente.
Quando caraffare un vino? In genere una caraffatura non troppo prolungata è benefica per i vini giovani (anche bianchi, specie se hanno un bouquet complesso), ovviamente per i rossi importanti, purché non troppo fragili: bianchi più aristocratici da Chardonnay, i rossi da Sangiovese, Aglianico, Nebbiolo e naturalmente Bordeaux (non si dimentichi che il Bordeaux è un vino “inglese” e gli inglesi caraffano sempre i vini), ma anche-udite udite- i Borgogna, per i quali la tradizione della caraffatura è assai meno radicata (un tempo di diceva che i Borgogna non vanno mai caraffati) e, in casi particolari, gli Champagne. Questi ultimi vanno caraffati solo se sono particolarmente vinosi ed hanno comunque una certa complessità aromatica da svelare, ovviamente in caraffe speciali, non troppo ampie, a collo stretto,e soprattutto con una apertura ristretta. La caraffatura di uno Champagne o di un grande spumante mette certo a rischio le preziose bollicine, ma eseguendo, quando necessario, l’operazione con delicatezza ed evitando una permanenza troppo prolungata in caraffa, ne vale la pena
Quando non caraffare un vino? Quando il vino è molto vecchio. Il suo bouquet è troppo etereo e si volatizzerebbe in un attimo. Inoltre una ossigenazione troppo violenta brucerebbe letteralmente il vino. Ho assistito alla “uccisione” di vini molto vecchi (di 30-40 anni), sottoposti ad una caraffatura troppo violenta e inutilmente prolungata. Ma un vino molto vecchio ha in genere molti depositi. Che fare allora? O si fa uso di in vecchio, elegante cestello (ce ne sono di bellissimi) e si versa il vino direttamente nel bicchiere senza scuotere troppo la bottiglia mantenendola coricata, oppure lo si fa direttamente dalla bottiglia, con mano molto ferma, inclinandola quel tanto che è necessario, dopo averla tenuta in piedi per almeno tre giorni (Pubblicato il 5.1.2011)
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Per quanto abbia aumentato il numero dei posti-bottiglia acquistando delle nuove scaffalature, che mi hanno permesso di ottimizzare lo sfruttamento dello spazio in cantina, è sempre emergenza spazi. Dove metterò le casse di Bordeaux e Borgogna appena arrivatemi dalla Francia? Mentre passo in rassegna le varie rastrelliere alla ricerca di qualche buco dove sistemare qualche altra bottiglia, mi imbatto in una vecchia bottiglia di Chianti degli anni ’70, evidentemente sfuggita ai miei monitoraggi. Si tratta di un altro Chianti classico del 1971: una riserva Machiavelli delle cantine Serristori , proveniente dalla Rocca di Castagnoli a Gaiole. Naturalmente 40 anni dalla vendemmia sono un bell’intervallo di tempo, e difficilmente un Chianti potrebbe durare così a lungo, tuttavia…
Il Sangiovese è un vitigno straordinario, che opportunamente selezionato, in annate molto favorevoli , può dare grandi sosprese. Non dimentichiamo che il Brunello di Montalcino, ritenuto dai più il vino italiano più longevo, è interamente (o dovrebbe esserlo) fatto esclusivamente con uve di Sangiovese grosso. Inoltre, appena qualche mese fa avevo degustato dei Torgiano rossi di Lungarotti di annate molto vecchie e sorprendentemente ancora vivi: una riserva del ’71, quando non riportava ancora in etichetta il nome della vigna Monticchio, quella del ’74, e uno stupefacente, emozionante ’69. Lo stato della mia bottiglia faceva sperare. Il colore dei vino , almeno per quanto si poteva intuire nonostante l’affumicatura del vetro e lo strato di polvere che vi si era depositato, sembrava ancora ottimo, e il tappo appariva, almeno esternamente, in buone condizioni. Di più, il livello del vino non scendeva al di sotto della metà del collo della bottiglia (mid shoulder). Si trattava di indizi molto positivi, che naturalmente però non sono decisivi. Non restava che l’assaggio. Memore di precedenti esperienze (un grande Pauillac della fine degli anni ’70 ossidatosi nell’arco di venti minuti, una volta caraffato), decisi di non decantare il vino. Avevo tenuto la bottiglia in piedi per tre giorni e potevo essere fiducioso che i depositi sarebbero restati sul fondo se non avessi scosso troppo la bottiglia nel versare il vino. Certo in questi casi si comprende l’utilità di un cestello da vino, un attrezzo ormai caduto in disuso, ma che può essere molto utile quando si maneggiano bottiglie molto vecchie. Il tappo è stato estratto senza troppi patemi d’animo. Certo quarant’anni fa doveva essere molto più elastico, ma lo era ancora sufficientemente da poter resistere a strappi non troppo violenti. In altri casi ho visto tappi letteralmente sbriciolarsi in mano, semplicemente maneggiandoli per liberarli dal cavatappi.
Già il colore del vino, una volta versato in un bel Riedel , rendeva di colpo più credibile quello che avevo solo osato sperare. Un bel granato ancora vivo, niente affatto opaco, appena orlato di arancione. Naso sorprendentemente pulito, per nulla chiuso, senza alcuna nota evidente di ossidazione o muffata, con sentori di fiori secchi (soprattutto violetta e rosa), chiodo di garofano. In bocca il vino è sicuramente vivo, delicato ma perfettamente integro, attraversato da una lieve vena acida, che gli conferisce una piacevole e sorprendente freschezza, setoso, restituisce sensazioni coerenti con il profilo olfattivo. Che dire di più? A questi livelli non si può neppure parlare di sorpresa, ma di “regalo”. Eppure una bottiglia così potrebbe non valere nulla. Contrariamente a quanto si crede, non tutte le bottiglie aumentano di valore con il tempo. Il mondo dell’antiquariato del vino è molto selettivo, riconosce solo pochi vini, ricercati sui mercati internazionali. Ci pensi chi accumula bottiglie pensando che “sono meglio dei BOT”. Forse sarà vero che, almeno oggi, tutto è meglio dei BOT, ma spesso si tratta solo di un alibi per giustificare la propria passione. Conservare quarant’anni una bottiglia di Chianti non è un investimento, ma una sfida e sicuramente molto azzardata. L’esperienza di cui ho parlato oggi é comunque uno schiaffo a quanti sentenziano con sicurezza sui blog che un Chianti non può vivere oltre i dieci anni. Naturalmente bisogna fare attenzione a non fare una regola di quanto costituisce probabilmente una eccezione. E’ certo però che certi vini , tra cui quelli da uve Sangiovese, di zone vocate come lo é il Chianti classico, in annate molto favorevoli, sapientemente vinificati e conservati in condizioni ottimali , ossia in perfetta immobilità, al buio, in una cantina fresca e termicamente stabile, possono durare molto più a lungo (a proposito: attenzione, temperatura e umidità non sono eguali dappertutto, anche in una cantina non grandissima). Purtroppo le denominazioni , pur prestigiose, ma ancora generiche sulla effettiva provenienza dei vini (quali parcelle?) e circa le caratteristiche dei suoli, sono insufficienti. Spesso si tratta di blend di partite diverse, che cambiano di anno in anno, e, anche quando in etichetta vengono indicate le vigne, questo di per sé dice ancora poco. L’introduzione di denominazioni comunali (Gaiole, Radda.,Greve…), come in Borgogna, certo aiuterebbe. Ma questo è un altro tema, sul quale occorrerà ritornare (Pubblicato il 2.1.2011).
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Non amiamo troppo i punteggi, perché sono inadeguati a descrivere davvero l'emozione che un vino ha saputo trasmetterci. E' difficile tradurre in una valutazione "oggettiva" qualcosa che si basa su aspetti che sono intrisi di soggettività. E' certamente "oggettivo" che un vino sia più o meno acido, abbia una percentuale di zucchero più alta o bassa, un grado di alcool più o meno elevato, ma é diiscutibile definire il livello di equilibrio gustativo tra queste componenti e quanto questo equilibrio si tradurrà in apprezzamento soggettivo. Quando, per necessità comunicative, ne facciamo uso, lo facciamo in centesimi, perché le stime in centesimi sono generalmente meglio comprese di quelle in ventesimi e sono più discriminative di quella definita dal semplice numero dei bicchieri o dei grappoli, anche se queste ultime esprimono meglio la valutazione "psicologica" della qualità di un vino (ci é sicuramente più facile, ma neppure mica tanto, distinguere un vino da 3 bicchieri da uno di 2 che un vino da 95 punti da uno di 92). Va detto inoltre che le valutazioni si riferiscono al "qui e ora". Tali valutazioni possono , entro un certo grado, dare luogo a delle proiezioni sull'evoluzione futura, ma occorre molta prudenza. Un vino ci piace molto oggi, ma può aver raggiunto il suo "apogeo" e iniziare il suo lento declino. Oppure il vino sta ancora evolvendo e ciò che oggi ci piace soltanto, potrà divenire un "grande vino". Un'ultima avvertenza: i 92 punti assegnati ad un Léoville Barton, grande cru di St.Julien, non sono gli stessi 92 punti assegnati ad uno spumeggiante Lambrusco di Castelvetro, ma si riferiscono sempre ai valori che sono propri di ciascuna tipologia di vino (Pubblicato il 28.12.2010).
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